Chi siete? Descrivete brevemente il vostro progetto musicale….

Siamo gli Angerfish, i nuovi aspiranti pesci grossi di questa scena. Siamo nati in provincia di Parma, attraverso numerose peripezie abbiamo definito il nostro stile e abbiamo scritto un album intitolato “Unbounded”. Musica cazzuta per gente cazzuta, siamo 4 musicisti di formazione rock in varie declinazioni, il nostro intento è di portare qualcosa di autentico e innovativo, dallo stile di produzione del nostro album ai testi che raccontano vicende realmente vissute sulla nostra pelle. Siamo un gruppo a 2 chitarre e 2 voci soliste, in genere crediamo nelle armonie ma amiamo anche i riff bestiali e le parti di batteria scattanti.

Da quanto tempo suonate? Perché avete scelto l’hard rock e il metal tra tanti generi musicali?

Abbiamo messo su il gruppo nel 2015, ma singolarmente ognuno di noi suona da più di 10 anni, quindi ci siamo conosciuti in un ambiente e con delle intenzioni già parzialmente inquadrate. Abbiamo tutti suonato in una moltitudine di band e generi prima di fondare gli Angerfish. Possiamo dire che sia stato l’hard rock/heavy metal a scegliere noi piuttosto che il contrario, perché a livello di influenze ognuno di noi ha in se molte declinazioni diverse di questo stile, e siamo dell’idea che il genere di una band debba essere definito da ciò che viene fuori quando i membri si confrontano, invece di partire con un’idea pre confezionata. Un criterio importante per noi è sicuramente la naturalezza dei suoni, l’autenticità sia nella produzione studio che nello show dal vivo. Se si ascoltano i nostri primi lavori è piuttosto evidente, il nostro EP omonimo del 2017 per esempio fu registrato con una macchina a nastro in uno studio invariato dagli anni ’90 in un seminterrato a Fidenza (PR). Così, per “Unbounded” abbiamo deciso di minimizzare più possibile i procedimenti digitali, pur essendo immessi in un impostazione di produzione moderna (a cura dei fantastici Christian Coruzzi e Wahoomi della Real Sound Studio). Pensiamo che il nostro stile musicale si addice allo stile di produzione “old school” in generale, e viceversa.

Qualche aneddoto, episodio particolare che vorreste raccontarci?

(Roger:) una vicenda che mi fece riflettere sull’andazzo delle scene di provincia: il nostro primo live, maggio 2017, lo Splinter (uno dei locali rock più noti di Parma) in apertura ai Breit, gruppo stoner/doom tedesco in pieno tour europeo. Quando arrivarono al soundcheck fu subito chiaro che erano più avanti di noi: furgoncino vissuto con strumentazione accuratamente disposta per poterci dormire sopra. Sul palco scenografia curata con giochi di luci, merch vario, uno stile musicale molto definito, insomma, degli autentici “road warriors”. Come da tradizione fummo noi ad aprire la serata. Avevamo già in scaletta la maggior parte dei pezzi dei nostri primi 2 EP ed eravamo entusiasti di farli sentire. Durante la nostra performance vedevo fra il pubblico diverse persone interessarsi alla band locale appena uscita che eravamo allora. Il responso generale non fu chissà cosa, ma decisamente incoraggiante per una prima esibizione in un locale del genere. Una volta scesi dal palco si andò a fumare una canna (sempre nel rispetto della tradizione) e a chiacchierare un po’. Mi ricordo che rientrai nel locale meno di mezz’ora dopo l’inizio dello show dei Breit e notai con grande stupore che mancavano i 2 terzi del pubblico. Alla fine della performance rimanevano gli accompagnatori della band, l’organizzatore dell’evento, 3 o 4 bevitori accaniti al bancone e noi che eravamo rimasti ad ascoltarli. Non era la prima volta (e non sarebbe stata l’ultima) che vedevo un pubblico dare per scontata una band meritevole che veniva pure da lontano. Mi ha stupito perché quel locale, oltre ad essere frequentato essenzialmente da rocker e metallari, è lungi dall’essere un buco. E abbiamo suonato anche in un sacco di buchi. Fra i più particolari mi viene in mente Rivergaro (provincia di Piacenza) dove suonammo a fine 2018. La strada per arrivare comprendeva una ventina di chilometri fuori città con tanto di strade di montagna dove non c’è anima viva per chiedere indicazioni. Una volta arrivati ci rendemmo conto che si trattava di un albergo/agriturismo/ristorante che aveva una mansarda abbastanza grande da poter allestire una strumentazione completa per le band. La cosa non mi dispiace in realtà, l’underground è l’arte dell’arrangiarsi. Ho conosciuto la maggior parte delle band più cazzute della scena in dei buchi, centri sociali, case occupate e locali sperduti vari. Il succo del discorso è questo: nella mentalità del “road warrior”, ogni palco è buono. Per quanto possa essere scadente l’acustica, marcia la zona, spartano il locale, scarso il pubblico, noi suoniamo ogni concerto con carica e passione come se fossimo all’Alcatraz. La scena rock è come il maiale: non si butta via niente… Piazzo l’ultimo: a dicembre del 2017 suonammo in un locale chiamato “The Wall” in periferia di Piacenza. Era la prima volta che suonavamo fuori dalla nostra provincia ed eravamo carichissimi. In quel periodo avevo cominciato a frequentare una ragazza a Parma alla quale raccontavo in generale ciò che facevo musicalmente. A quella serata non avevo invitato amici, essendo molto lontani dalla zona. Avevo “spammato” l’evento sui social ma mi limitai a questo, era pure vicino a capodanno. Ero un po’ incerto su quanta gente ci sarebbe stata. Ma il pubblico c’era, e anche il locale era parecchio bello. Avevo finito di prepararmi e dovevamo salire sul palco in circa 15 minuti quando vidi la ragazza in questione. Mi fece molto piacere la sua presenza oltre che per la sorpresa perché fu il primo show dove suonammo un pezzo intitolato “Facing Death”, dove nel testo parlo fondamentalmente di lei. Non lo sapeva ma è stato un momento molto forte per me, che mi ha lasciato un qualcosa in più alla carica così particolare che rimane per tutta la notte quando suoni dal vivo. Vi lascio immaginare com’è finita quella serata…

A cosa vi ispirate per scrivere le canzoni e quali sono i riferimenti musicali?

Il rock è uno dei generi più vari esistenti, permette quindi moltissime libertà artistiche e le sue radici sono inesauribili. Detto questo è ovvio che ci sono band e artisti che ci hanno segnato da prima che prendessimo in mano gli strumenti. Chiaramente non tutto quello che ascoltiamo è necessariamente quello che vogliamo suonare, come abbiamo menzionato prima, ognuno di noi ha influenze diverse, Dal blues di Howlin’ Wolf e Muddy Waters al grunge dei Soundgarden e degli Alice in Chains, senza tralasciare mai il classico hard rock anni ’60/’70, dai britannici Led Zeppelin e Thin Lizzy agli americani Grand Funk Railroad e Kiss e tutte le altre band incredibili che ci ha lasciato quel periodo magico. Quando si parla di anni 80 poi oltre ad essere influenzati dai classici Mötley Crue e lo stile glam portato al suo apice tecnico in gruppi come Dokken o Pink Cream 69. Siamo anche molto legati all’heavy metal dei Judas Priest, la NWOBHM in particolare Motörhead e Venom, il punk, le declinazioni estreme partendo dall’hardcore, viaggiando nel thrash e sfociando nel death e le sue forme più contorte come il brutal e lo slam. Ci sono anche ottime band recenti, vengono subito in mente i Metalian (dal Canada), ascoltare progetti attuali della scena permette di confrontarsi con la propria musica, oltre che a constatare quanto spaccano queste nuove produzioni e che il genere è ancora forte ed è in una fase di evoluzione. Suonando insieme ormai da 6 anni, nel tempo, crescendo insieme musicalmente ci siamo influenzati a vicenda parecchio, quando componiamo questa cosa si fa sentire molto di più rispetto ad un semplice “confronto di sottogeneri”. Singolarmente non suoniamo solo generi dalle radici rock o blues, nei nostri riferimenti c’è un’infinità di stili, alcuni spiccano di più in quello che abbiamo creato.

Potete presentare ai nostri lettori il vostro album appena uscito?

Cari lettori di Wezla, non aspettatevi il solito hard rock fondato sulla nostalgia, blando, che puzza di già sentito. È tutto ciò che abbiamo voluto evitare fin dall’inizio perché consideriamo che questa scena ha bisogno di una botta di vigore, e non di essere “mantenuta in vita” tramite riciclaggio. Il nostro è un album in cui ogni pezzo è molto diverso, ma c’è il filo conduttore che definisce il nostro stile e che rende l’esperienza dell’album. Ascoltando le nostre canzoni non viene automatico fare sempre i banali collegamenti con gruppi storici o movimenti, nonostante la nostra fedeltà alle radici che tutti amiamo. Infatti dicono che suoniamo hard rock per categorizzarci in qualche modo (giustamente) , ma ascoltando Unbounded vi renderete conto che c’è molto di più.

Quale delle canzoni dell’album vi rappresenta di più?

All’unanimità: “Lion’s Roar”. Ironicamente è stato l’ultimo pezzo che abbiamo scritto per l’album, è saltata fuori come il pezzo mancante di un puzzle, per come avevamo concepito la struttura dell’album. Musicalmente ci definisce bene anche se è diversa da molte altre, in questo senso tutti i pezzi ci rappresentano, per la nostra scaletta live in formato mezz’ora è sempre difficile scegliere i pezzi da non includere. Detto questo, “Lion’s Roar” (insieme ad alcune altre) rimarrà sempre, probabilmente anche dopo la pubblicazione di nuovi lavori.

Ci parlate del video di “Lion’s Roar”? Dove è stato girato? Raccontateci tutto per bene…

Innanzitutto avevamo deciso da prima (e su consiglio di Led della Ghost Records che salutiamo calorosamente) che “Lion’s Roar” sarebbe stato il primo singolo dell’album, logicamente quindi il video sarebbe stato di quella canzone. Cominciammo a parlarne con un’idea della cosa espansiva, composta da diverse location e anche un minimo di sceneggiatura. Quando arrivammo ad avere un concept completo avevamo tolto tutto ciò che risultava superfluo o non abbastanza elaborato. Andammo a filmare in 2 location: una sala prove di Parma, per avere riprese in cui suoniamo con la strumentazione completa e un sottopassaggio (sempre a Parma) pieno di graffiti e con una luce particolare per dare un impatto visivo maggiore. Sorprendentemente fu una decisione del regista (Giacomo Mambriani della Sunflower Studio) di tenere solo le riprese del sottopassaggio nel montaggio finale perché talmente incisive da non far risultare il video noioso senza altri inserimenti, disse addirittura che le immagini in sala prove smorzavano la dinamica, ci siamo fidati del suo giudizio. Non solo per questo ma anche per diverse altre decisioni che hanno caratterizzato il video.

Se la vostra musica fosse una città, un libro o un quadro?

Come città viene da pensare a Parigi: è un epicentro culturale, artistico e storico ma è anche un luogo pericolosissimo dove è fin troppo facile trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato (ve lo dice un francese). Come libro si può citare “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Ken Kesey. Un opera americana contemporanea, alternativa nel tema nel suo periodo, ma molto coinvolgente, che fa riflettere parecchio sul confine sottile fra cosa è considerato essere malattia mentale e cosa no. Forse anche noi siamo dei pazzi, il fatto di aver ideato quest’album può esserne la prova, come potrebbe dimostrare il contrario. Per il quadro optiamo per la “Maja desnuda” di Goya

Oltre la musica che arti preferite?

È una questione di “cultura” qua, per alcuni di noi il cinema e il teatro, per altri il BDSM…

Per concludere la nostra chiacchierata parlateci di come dovrebbe essere il vostro live perfetto…

Un festival all’aperto, una calda sera d’estate, 10 mila persone. Il gruppo prima di noi ha finito la sua scaletta e stanno mettendo i nostri setting. L’adrenalina ci sale al punto di non riuscire a stare fermi. Viene alzato il sipario che usano anche tanti dei gruppi che adoriamo. Ci mettiamo in posizione, il silenzio, presto interrotto dal pubblico che anticipa ciò che sta per succedere, è seguito da un’ampia proiezione luminosa. Un breve lick aggressivo sullo strumento, poi attacchiamo il primo pezzo, il sipario cala, la luce si dissipa su di noi. Il pubblico è in delirio, alcuni fanno headbanging o ballano a caso, altri cantano con noi i ritornelli, gli esperti ascoltano attentamente la performance, le coppiette copulano. L’acustica è magica e ormai siamo una macchina, la batteria segna la precisione delle chitarre, i monitor ci confermano che le voci sono perfette, nessuno sta sbagliando niente. Prima dell’ultimo pezzo avevamo preparato una cosa, un esplosione pirotecnica speciale. Quando parte insieme alla canzone, l’atmosfera diventa ardente. Concluso l’ultimo pezzo suoniamo tre bis per il pubblico che reclama con entusiasmo “one more song”. Mica male come live perfetto no?