Raccontaci dei tuoi esordi, chi ti ha ispirato musicalmente? Nomina anche 3 album che hanno segnato la tua vita…
Ho iniziato col basso elettrico che, ad ora, rimane il mio più fedele amico, sebbene negli ultimi anni me ne sia un po’ allontanato per seguire nuovi stimoli. Ero, e sono, il classico musicista venuto fuori dal gruppo rock che prova 14 ore al giorno nella sala parrocchiale.
Le figure che mi hanno influenzato sono per fortuna tante, e non per forza vanno ricercate in grandi nomi della musica. Riconosco tuttora il ruolo di maggiore influenza a mio fratello, il quale portò la musica in casa. Poi ci sono i momenti in cui realizzi di aver incontrato un disco o un musicista che cambierà il tuo modo di pensare. Cosciente di dimenticarne molti, dico che i momenti che più hanno segnato il mio percorso sono “Burn” dei Deep Purple, ascoltato la prima volta quando avevo 13 anni e che ancora continuo ad ascoltare. La Sinfonia n.8 di Mahler. Avevo 21 anni, una folgorazione. Infine “Kontakt” di Stockhausen, attraverso questa composizione mi sono avvicinato alla musica elettronica.
Perché hai scelto questo nome Opera23?
Opera inteso come genere: in ambito musicale, probabilmente il più grande orgoglio italiano, Opera intesa soprattutto come lavoro, idea di sacrificio come unico strumento per arrivare ad un risultato. Ho sempre sostenuto che la dedizione, l’impegno e la tenacia abbiano un ruolo determinante nel processo creativo. Il 2-3 invece è una sequenza numerica che sempre mi ha affascinato, un numero primo spigoloso, potrei anche dire qualcosa sulla successione di Fibonacci, ma la verità è che il 23 è mio giorno di nascita, quindi non perdiamoci in discorsi troppo complessi.
Con la tua musica che messaggio vuoi trasmettere?
È davvero difficile rispondere a questa domanda. Probabilmente è possibile trovare un messaggio nella mia musica, ma non credo di essere io stesso capace di definirlo. Quando compongo non ho intenzione di trasmettere un messaggio, mi limito a comporre per il semplice gusto di farlo. Non considero la musica come il veicolo di una idea, di un concetto, sebbene è innegabile che nella musica ci siano idee e concetti. È chiaro però che un significato, nella mia e nella musica in genere, ci sia, la cosa che più mi affascina è che a decidere quale sia questo siginficato non è l’artista, ma al contrario l’ascoltatore. Per farti un esempio: dello stesso brano, “Blob_tragedy”, mi sono arrivati pareri del tutto discordanti fra loro, un mio amico lo descrive come estremamente teso, dissonante, ruvido, mentre un altro ascoltatore lo definisce come un brano estremamente rilassante per “entrare in pace col mondo”. Sono entrambi pareri e significati corretti a mio modo di vedere, ma come artista non ho modo di controllarli.
Se la tua musica fosse una città a quale assomiglierebbe?
Senza dubbio a Barcellona, dove da meno di un anno ci siamo trasferiti con la mia compagna. Credo anzi che la stessa Barcellona abbia influito in modo determinante nella costruzione dell’album. Diciamo che qui ho trovato il coraggio giusto per avventurarmi in un album solista, di sola musica elettronica. Barcellona è una città che non tende a giudicare, è come se ci fosse abbastanza luce affinché tutti possano avere modo di esporsi in modo corretto.
Parlaci del tuo nuovo album “Internal with figures, lights. And shadows”. Come è nato e si è evoluto questo tuo progetto musicale?
È un album che ha avuto una maturazione abbastanza lunga. È da anni che avevo in mente questo tipo di disco, ma non ho mai incontrato il coraggio giusto. Per me è quasi una liberazione. Come dicevo prima, vengo dal mondo del basso elettrico e del contrabbasso, strumenti che hanno una tradizione tecnica piuttosto ampia e complessa. Ho passato molto tempo cercando di studiare ed immagazzinare più tecniche possibili, il problema è che la tecnica non sempre affina il linguaggio. Ho speso gli ultimi anni cercando di individuare un modo per sottrarre materiale al mio linguaggio. Cercare la sintesi, in qualsiasi contesto, credo sia fondamentale, e, nel caso di “Internal with figures, lights. And shadows” questo percorso l’ho affrontato attraverso il concetto di ripetizione. Ecco, questo disco nasce dalla necessità di rimettere in ordine il mio armadio. C’è poi un lato pratico, ovvero quello di prendere il disco e portarlo fuori da uno studio in modo tale che possa essere ascoltato, questo è stato merito di Wic Recordings che attraverso il lavoro di Joost Lodewijk ha reso reale quello che altrimenti sarebbe solo un groviglio di parole.
Se potessi ascoltare un unico brano del tuo nuovo disco, quale dovrei ascoltare? Perché?
“Sleep of knowledge”. È il brano che chiude il disco proprio perché estremizza e riassume le idee di cui parlavo. La prima parte del brano è caratterizzata da una incessante ripetizione, quasi ossessiva, che va a dissolversi nella seconda parte, quasi in modo naturale. Un brano che nella mia intenzione, contrappone e affianca tensione e distensione.
Di recente cosa ascolti particolarmente?
Gli ultimi due album che ho ascoltato interamente sono “Crush” di Floating Points e la Sinfonia “Incompiuta” di Schubert. E poi c’è una canzone che, qualche settimana fa, mi ha proposto Spotify, non so perché, ma che ormai fa parte della mia routine recente, “Helplessly hoping” di Crosby, Still & Nash. Un brano di una bellezza disarmante. Sempre a proposito di Spotify, ho creato una playlist con i brani che più ascolto e che più hanno condizionato sia il disco, sia, in genere, il mio percorso compositivo. La playlist si chiama “Opera23: it’s my room”.
Quando e dove ti potremo vedere live?
In questo momento stiamo lavorando alla diffusione del disco, nelle settimane successive lavoreremo alla promozione reale, ovvero i concerti. La verità è che non vedo l’ora di portare in giro questo disco, soprattutto per sentire direttamente la reazione degli ascoltatori, vedere cosa succede. Sto lavorando già alla organizzazione tecnologia del live, una sfida nella sfida anche questa.
Cosa consigli ad un artista o ad una band che sta muovendo i primi passi nel mondo della musica?
Studiare tanto e non lasciarsi imbrigliare dalla scuola e dal maledetto concetto di successo. Occorre accettare che quello della musica è un mestiere e che lo scopo basilare non è diventare famosi ma poter vivere tranquillamente, pagare l’affitto attraverso la musica. L’idea che un musicista per considerarsi tale debba passare dal giudizio degli altri, quindi dalla fama, è qualcosa di terribile. Il panettiere non ha bisogno di fama per esercitare la sua professione, deve solo disporre della strumentazione giusta e, soprattutto, delle giuste competenze per fare un buon pane. Ecco perché dico che studiare sia fondamentale, altrimenti si corre il rischio di avere musica di scarsa qualità e, soprattutto, pane lievitato male.
Se potessi collaborare con un musicista o una band, del presente o del passato, chi sceglieresti?
Purtroppo, da meno di un anno, Mark Hollis, ex leader dei Talk Talk è passato a miglior vita. Sì, se avessi potuto, avrei scelto di collaborare con lui, anche solo dividere con lui una bottiglia di vino e chiacchierare sarebbe stato sufficiente. Un artista incredibile, gli ultimi album dei Talk Talk, ed il suo album solista sono la perfezione in fatto di scrittura, sonorità, ricerca. Un musicista, Mark Hollis, che ha saputo dosare alla perfezione suono, parola e soprattutto silenzio. Potrei parlare ore della sua musica, ma probabilmente andrebbe contro le sue stesse idee. Se avessimo collaborato, probabilmente avremmo litigato per questa mia smania di comprendere il silenzio. E nella lite, lui avrebbe avuto ragione. Ovviamente.
Ci piace!