Le rivoluzioni più efficaci non si fanno proponendo utopie distanti dalla realtà e cercando di imporle. Sovvertire l’ordine dall’interno è molto più complicato, ma forse più utile, e se stiamo parlando di musica se non altro implica una riflessione imprevista. I brani dell’Ep “Corrente” dei Granato vertono su questa intenzione. Volendo portare una critica al sistema occidentale consumistico, non scelgono di inserire nella musica elementi idiosincratici con le nostre abitudini moderne, ad esempio con strumenti etnici o con tonalità indiane e dissonanze atonali. Al contrario, la loro elettronica è facilmente riconoscibile e assimilabile al trip hop. Arpeggi di chitarra elettrica, spesso con delay e feedback, suoni synth e batterie virtuali costituiscono le costanti delle canzoni. La voce più che cantare, spesso si trova a salmodiare come faceva Giovanni Lindo Ferretti, però con riferimento più alla fase CSI che CCCP.

“Entrata” e “Uscita”, intro e outro dell’Ep, sono strumentali che alternano parti eteree e distese a situazioni claustrofobiche. “L’Occidente cristiano vuole un mondo uguale a sé”, si canta in “Lampedusa”, che già dal titolo allude a una riflessione sul nostro sistema, che crea da un lato (il nostro) nuovi poveri, e dall’altro aspettative di trovarsi chissà quale accoglienza. L’Occidente viene criticato anche nella sua ideologia, oltre che nelle azioni economiche: “e pretende nazioni con inni nazionali”. “T.T.T.” è un’elettronica più dritta e basata su un basso synth staccato che ricorda i Kraftwerk; qui la voce, interamente passata al vocoder, non è intelligibile, ma la musica è trascinante.

“Corrente” è il brano più significativo. Una lunga traccia (nove minuti) in cui nella prima metà è preponderante la musica strumentale, con vocalizzi e parentesi dance. Il brano è però introdotto da una voce femminile che parla di un fornaio che ha trasformato il proprio negozio in una panetteria chic, e i clienti parlavano di moda. E’ un esempio significativo dei nostri tempi, dove il ristorante diventa cucina piena di estetica e povera di sapore, il barbiere diventa barber shop con arredamento anni ’50, il gommista atelier dei pneumatici (giuro, questo l’ho visto io), dove insomma come predetto da Warhol, la forma trionfa sulla sostanza. La voce femminile ritorna nella seconda metà del brano, a farci almeno tre filoni diversi di “predica”, sopra un tappeto sintetico. Un po’ come fece Battiato alla fine de “L’esistenza di Dio”, con la differenza che lì la donna parlava in tedesco e di teologia, giusto per essere più incomprensibili possibile come piace a Franco. Invece qui le riflessioni sono tutte in italiano, sono quei pensieri che non vogliamo sentire ma di cui abbiamo bisogno adesso. “Il contatto con la materia rimane prerogativa di pochi, quei pochi che usano ancora le mani. (…) La sempre maggiore virtualizzazione della vita, tutto rende più spersonalizzato il rapporto con la realtà, allontanando le persone dalla vita reale”.

“I will be” invece, brano centrale nell’Ep, è il più introspettivo. Se negli altri pezzi la sicurezza data dall’ideologia fa parlare in maniera convinta, qui c’è un ricordo del passato: “Ero così carino, libero e inoffensivo”, nell’età dell’inconsapevolezza non si faceva male a nessuno, ora è difficile vivere quando si sa come funziona realmente il mondo. E il ritornello ripete “Sure, I will be… Sure, I will be…” Non siamo pertanto di fronte a dei predicatori che razzolano male, ma a delle persone, che sanno mettersi in discussione, e da questo emergono i pensieri più sinceri nei confronti della realtà che ci circonda.