1) Diamo il benvenuto a Someone sulle pagine di Wezla. Presentati ai nostri lettori…

Compongo materiale originale sotto questo nome d’arte da circa dieci anni; ho cominciato con una serie di EP e di mini-album frammentari, auto-prodotti e pubblicati sul web – sfruttando l’onda di MySpace quando ero poco più che un ragazzino, poi su YouTube e altri social; successivamente ho cominciato a collaborare con After Life, e “Lullabies for Amelia” (uscito a Gennaio 2017) è il primo EP ufficialmente distribuito sotto etichetta. I palchi più importanti raggiunti finora, comunque, sono arrivati sia in Italia che all’estero grazie a una band, gli I Am The Distance, che è attualmente in ricostruzione dopo un lungo periodo di inattività.

2) Ho letto che “Lullabies For Amelia”è “un concept-album che tratta di una ipotetica figlia a cui l’artista immagina di dedicare dei brani d’amore”. Ci spieghi meglio tutto ciò?

Direi che è esatto solo in parte. “Lullabies for Amelia” parla sì della figlia che non ho ancora avuto (e forse mai avrò), ma quelle che contiene non sono (non propriamente, almeno) canzoni d’amore: le definirei piuttosto “lezioni morali”, piccole oppure grandi, forti e chiare oppure vaghe e indecifrabili. Hanno un finale amaro, come le favole di Esopo. Sono ninnananne, ma non per dormire sonni tranquilli. E questo rapporto che le accomuna, così unilaterale ed estremo – un padre che non è padre e figlia che è solo immaginata – riflette in pieno tutti i dubbi esistenziali scatenati dal ruolo genitoriale; dubbi non solo miei personali, ma anche di chiunque voglia mettere su famiglia in tempi bui come questi, in cui portare un bambino in vacanza o a un concerto può significare vederselo spazzare via davanti agli occhi da un kamikaze. E in questa storia, in effetti, Amelia è un velo che permea ogni cosa, mentre il vero protagonista è il padre (mio alter ego, o ego parziale): solo, vagabondo, insicuro, nevrotico e senza meta. Un padre che non è padre, ripeto, proprio come non sono padre io, che all’alba dei trent’anni ho paura di essere già vecchio e che ho già sacrificato molta della mia educazione sentimentale e sessuale in favore della carriera o della musica. 
Inoltre non si parla mai nemmeno di una madre, né la si accusa in qualche modo della grande assenza. D’altra parte, Amelia è un personaggio indagato in modo discreto ma totale: non solo come bambina, ma anche come adolescente e giovane donna, con le sue gioie e i suoi dolori; in alcune canzoni mi calo quindi direttamente nei suoi panni esprimendomi in prima persona, in altre si passa invece a un dialogo a tu per tu – ma sempre disincantato e un po’ cinico, mai melenso. 
Riassumendo: è come una ghost story, ma con qualche pennellata di rosa pastello.

3) Broken Arrow, una delle tracce dell’EP, è stata scritta e composta da te e arrangiata da Marco Germani. Ci parli della collaborazione con Marco? Come vi siete conosciuti?

Io e Marco viviamo nella stessa cittadina del Nord Italia; poco dopo essermici trasferito, circa sei anni fa, io ho cominciato subito a guardarmi intorno alla ricerca di contesti in cui suonare. Ho scoperto lo studio di Marco e mi ci sono precipitato, non solo per la sua rete di contatti con le realtà musicali del territorio, ma vedendolo anche come un investimento per la gestione a tutto tondo dei progetti che avevo (I Am The Distance così come Someone). Ne è nata una collaborazione duratura, oltre che un’amicizia.

 Sia per “Broken arrow” che per tutti gli altri brani di “Lullabies for Amelia”, pensando all’apporto di Marco io parlerei più di un “restyling” che di un arrangiamento. La struttura dei brani e le parti principali erano infatti già complete; di solito poi, dal vivo, mi esibisco soltanto con chitarra e voce. Marco mi ha dato semmai la spinta definitiva a seguire un istinto: quell’istinto che mi diceva di abbandonare il disegno che mi ero creato in mente, e cioè quello di un album elettroacustico “stantio”, per buttarmi su un sound più impalpabile ed elettronico (meglio ancora “dream-pop”, un termine che la critica usa spesso e che mi piace molto). In realtà, quindi, è stato un ritorno alle radici: sono da sempre un appassionato di musica elettronica in tutte le sue sfaccettature, tant’è vero che questa influenza era già molto marcata in gran parte del materiale “sparso” che incidevo e pubblicavo per conto mio. Questo EP, insomma, vuole risultare autentico al 100%: butta giù tutte le mie maschere. Perfino gli interventi degli strumenti “sintetici” (come archi, timpani, tastiere), non pensati in precedenza, sono stati improvvisati in fase di registrazione al definirsi graduale del sound, quasi in modalità “buona la prima”: un processo molto pulito e fluido, una volta capito che cosa davvero volessi fare.

4) Domanda simile alla precedente per Marco Germani. Ci parli della collaborazione con Someone, uno degli artisti della tua label indipendente After Life Music Dimension?

Essendo molto coinvolto in progetti “cover” ho da sempre sentito l’esigenza di trovare una dimensione differente o forse è meglio definirla un piccola via di fuga dal dover metabolizzare e reinterpretare del materiale già esistente e di fama mondiale scritto da artisti geniali: questo farmaco miracoloso l’ho trovato per l’appunto negli “inediti” che ho sempre amato e credo siano frutto di una specie di mistico potere che è latente in ognuno di noi. La nostra associazione culturale si trasforma in etichetta indipendente quando diventa un “laboratorio” per miscelare le idee che risuonano nella testa dell’autore e renderle qualcosa di più definito come un video, delle tracce online, un CD o una serata di musica live. È importante fare in modo che questo “potere” diventi sempre più forte e possa stupire chiunque, perché chi ha qualcosa da dire lo deve fare, una canzone potrebbe addirittura salvare la vita a qualcuno o perlomeno dare ad essa un significato profondo. Ho conosciuto Someone semplicemente “chitarra/voce” e mi è piaciuto tantissimo, poi ho scoperto che aveva degli amici con i quali componeva scambiandosi gli strumenti e armonizzandosi a vicenda ed è stato stupefacente, infine ho trovato questa sua vena da “smanettone” elettronica e sintetica e ci siamo avvicinati, anche se io sono molto più vecchio anagraficamente, questo ci fa capire che cambia il vestito ma non l’individuo perché la sua capacità è proprio quella tipica del songwriter: una melodia precisa accompagnata da una serie di accordi, il lavoro di arrangiamento e “tinteggiatura” dei brani, che è stato intenso e gratificante; mi piace vedere il risultato finale come in parte frutto della mia “manipolazione” sul buon Jacopo che non finirà mai di stupirmi!

5) (sempre per Marco Germani) Ci parli anche di After Life Music Dimension? Come è nata? Quali sono le vostre aspirazioni e i vostri obbiettivi? Perché è diversa dalle altre label?

Come citato sopra, è nata per sperimentare e creare, dare uno spazio fisico e tecnologico per produrre un prodotto finale fruibile da chiunque, i nostri obbiettivi sono: espandere la capacità artistica e comunicativa di un autore, attrarre l’attenzione di chiunque. Siamo diversi dagli altri perché non ci interessa lo scopo “commerciale” ma solo e unicamente quello di realizzazione e crescita della nostra community, tant’è vero che trattiamo le cover come gli inediti senza fare “razzismo musicale” e spesso fondendole nelle stesse serate, prassi che in questo paese viene spesso vista come un abominio, ma la musica è arte quindi non può avere limiti, se non il proprio gusto personale..

6) Il videoclip di Broken Arrow è stato realizzato da Elisa Collimedaglia. Elisa ci parli di questo tuo lavoro, delle tecniche di ripresa, del montaggio, della fotografia… insomma raccontaci tutto…

Ho subito accolto con entusiasmo l’idea che Jacopo aveva per questo videoclip, doveva essere qualcosa di molto intimista, delicato, simbolico, uno stile che mi è molto congeniale. Abbiamo effettuato le riprese in una mattina, in un edificio abbandonato nella campagna lomellina, ho girato tutto con una reflex, utilizzando un obiettivo 50 mm, in parte su cavalletto (il playback, per dare una visione più “neutra”) e il resto a mano (per dare un’impressione più vera, reale). Degli oggetti simbolici che compaiono nel video, che rimandano all’art-work dell’EP (che ho realizzato sempre io) alcuni sono miei, che uso ogni giorno, come il ciondolo a forma di cuore, oppure, come nel caso della Barbie, sono di quand’ero piccola: questo mi piace perché mi rivedo un po’ nella fantomatica ragazza protagonista del concept; altri oggetti, come l’arco e le frecce, sono stati costruiti appositamente. Il montaggio è stato fatto insieme a Jacopo, quindi è frutto del gusto condiviso da entrambi, in alcuni momenti è basato sul ritmo della musica, in altri è pensato per sottolineare il testo. Per quanto riguarda la fotografia all’inizio avrei scelto il colore, con un verde tenue predominante, ma poi ho capito che il bianco e nero era quello che Jacopo si era immaginato fin dall’inizio (e richiamava il booklet del CD), perciò quella è stata la scelta definitiva e il risultato è una sorta di ricordo malinconico.

7) Torniamo a Someone…Di cosa parla il testo di Broken Arrow, una canzone che ci ha tanto impressionato?

“Broken arrow” è cantata in prima persona, e parla di una relazione finita molto male – anzi, di due. Una è la relazione del protagonista (o di Amelia) con il suo vecchio amore, l’altra è quella del suo vecchio amore con un amore nuovo. Un triangolo? Forse, ma scaleno. O addirittura un triangolo spezzato, come spezzata è la freccia che dà il titolo alla canzone – e che è il simbolo di un dolore sì profondo, ma ormai non più nella sua fase acuta. Un’Amelia probabilmente ventenne (o giù di lì) si rivolge con disillusione, attraverso di me, al quest’uomo bastardo: il fatto che anche lui stia soffrendo per colpa di qualcuno, ora, lo rende per proprietà transitiva altrettanto consapevole della miseria umana. Il suo fallimento è un’eco del fallimento precedente; il suo cuore a pezzi è il cuore a pezzi di chi lo ha amato ed è stato respinto da lui per primo. Un colpo che trafigge, ma debolmente; che va a segno, ma non “lascia” il segno.

 Come a dire, quindi, che non c’è karma, ma solo un male che si ripete e che man mano, 
allontanandosi da noi verso un punto di fuga, ci ferisce meno.

8) Quale è la tua traccia preferita di Lullabies For Amelia dal punto di vista affettivo ed emozionale?

Sempre “Broken arrow”: non a caso queste parole sono ora tatuate sul mio braccio.

9) Con quale artista vorresti collaborare per il futuro? Dove sogni di suonare?

Potrei fare mille nomi, ma meglio rimanere coi piedi per terra! La fantasia parte a briglia sciolta spesso e volentieri… Tante volte ho sognato a occhi aperti di incidere dischi su dischi con i miei beniamini, chi al mio stesso livello non lo farebbe? Forse però, fra tutti, Steven Wilson è in assoluto l’autore con cui oggi come oggi avrei il sogno sfrenato di lavorare – e questo per mille motivi. Ho poche competenze per dare giudizi assoluti, ma personalmente non credo di aver mai visto o sentito un musicista tanto poliedrico, tanto audace, tanto capace di leggere in se stesso e nelle possibilità che la musica offre di descrivere il mondo e la natura umana. Per quanto riguarda il “dove”, da eterno insoddisfatto quale sono ho una vera ossessione per gli Stati Uniti: un luogo magico. Anche qui le motivazioni sono molte, prima fra tutte l’aver sperimentato in prima persona cosa si provi a suonare e cantare davanti a un pubblico americano: un calore e una partecipazione unici, un’accoglienza meravigliosa per un estraneo venuto dall’altra parte del globo. 
In più, sono un amante della musica country e l’anno prossimo passerò un mese a Nashville, soprannominata “Music City” e patria del genere; la chitarra, ovviamente, verrà con me. E chissà che io non abbia l’occasione di incontrare alcuni dei personaggi di spicco della scena (ancora sconosciuti in Italia), che vivono e lavorano lì: cito per esempio (e vi consiglio) nomi come Florida Georgia Line, Little Big Town, Alan Jackson.

10)Riesci a bilanciare la tua carriera artistica con la tua vita?

Ho fatto delle scelte, come tutti: ho studiato (finché ho potuto), ho trovato un lavoro “normale” in un’azienda “normale” e altrettanto “normale” è la mia routine. Sapevo che non avrei potuto contare sulla musica, non come mestiere e non come si conterebbe su una moglie fedele. Come ho già detto, ho una band che mi ha dato belle (anche se fugaci) soddisfazioni e sto ricominciando a crederci, piano piano – ma non è facile. Tutt’altro. Essere Someone, o comunque essere parte di un gruppo che non sempre ragiona come un’unica entità, è un piccolo fardello – un po’ come aspettare il calare della notte per vestirsi di kevlar e fare il vigilante in giro per le strade. Comporta fatica, e le botte prese sono dieci volte le vittorie. Ci viene fatto credere che in Italia ci sia posto per tutti, nella musica “emergente” – ma non è così: la verità è che tutti sgomitano per un posticino in qualche bettola, il venerdì sera, coperti dal brusio di clienti annoiati e dalla telecronaca del posticipo di campionato. Il meglio che possiamo fare è tirare avanti con le nostre occupazioni, e poi provare a sfruttare i ritagli di tempo per farci conoscere sul web, via social, o in qualche vetrina più appropriata (i contest, per esempio, tanto ingannevoli quanto utili come palestra).

 Far convivere i due piani, tanto per chiudere il discorso, non è difficile, vista soprattutto la prevalenza schiacciante di quello quotidiano e mondano. Si fa quel che si può, senza troppi castelli in aria. Non c’è molto altro da aggiungere.

11)E, per concludere la nostra chiacchierata, un appello appassionato a tutti coloro che incominciano a fare musica…

Come sopra: fate quello che potete, quello che vi sentite e quello che vi va. Questo è tutto ciò che serve per dare la misura della vostra passione.